1980: un ricercatore statunitense, Michael Gottlieb, s’imbatte casualmente nel primo caso diagnosticato di AIDS, senza però riconoscerlo. Ci vogliono un paio di anni perché la malattia, individuata inizialmente soprattutto tra pazienti trasfusi e omosessuali attivi, venga caratterizzata, riconoscendone la natura virale e le caratteristiche principali.
Nel 1982 riceve anche il suo nome ufficiale: sindrome da immunodeficienza umana acquisita. L’anno successivo si riscontrano i primi casi anche in Europa. Nel giro di poco tempo si parla di una vera e propria epidemia.
Nata nel 1978, ricordo bene il terrore che accompagnava la parola AIDS; un terrore giustificato, perché all’epoca la malattia era per lo più mortale. Senza contare lo stigma sociale che portava con sé, e che ancora la caratterizza.
L’AIDS oggi
Grazie alla scoperta di farmaci che riescono, nella maggioranza dei casi, a evitare la replicazione virale nel paziente, la situazione oggi è decisamente migliorata. Tuttavia, siamo ancora lontani dall’eradicazione del virus, obiettivo che l’OMS ha posto entro il 2030.
Se si guarda all’Italia, i numeri parlano di un aumento dei contagi nel corso del 2023: le nuove diagnosi sono state infatti 2349, pari a una incidenza di 4 casi ogni 100 mila residenti.
Si tratta di una incidenza al di sotto della media europea, pari a 6,2 ogni 100 mila residenti, ma comunque maggiore degli anni precedenti. Tra i nuovi malati, il 76% è di genere maschile, con età media 42 anni. Le donne hanno invece un’età media di 39 anni.
Nell’86,3% dei casi, l’infezione si è propagata tramite rapporti sessuali, nel 38,6% dei casi in un rapporto omosessuale, mentre nel 47,7% in uno eterosessuale.
L’importanza della PrEP
Tra le strategie messe in atto a livello terapeutico per ridurre il numero di nuovi contagi vi è la PrEP, ovvero una profilassi pre-esposizione che richiede di assumere alcuni farmaci se a rischio di entrare sessualmente in contatto con soggetti contagiati.
Durante l’ultimo congresso della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali si è parlato dei risultati della PrEP long acting.
Spiega la prof.ssa Cristina Mussini, vicepresidente SIMIT: “nello studio PURPOSE 1 del 2024, con una somministrazione per via iniettiva ogni due mesi di cabotegravir vi sono state zero infezioni.
I risultati su lenacapavir, recentemente pubblicati, hanno mostrato zero infezioni nelle donne e poche infezioni nella popolazione di uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM): un dato che non sminuisce l’eccezionalità dei risultati, che sarebbero difficilmente conseguibili da qualsiasi vaccino.
In Italia, la PrEP orale – attualmente l’unica disponibile – offre una protezione elevata (97%) contro l’HIV. Può essere assunta quotidianamente o on demand, ossia in occasione di rapporti a rischio.
Questi dati non devono portare a sottovalutare l’uso del preservativo, che resta uno strumento di prevenzione efficace nonché l’unico in grado di proteggere anche da altre infezioni sessualmente trasmissibili, come clamidia, sifilide, gonorrea”.
Per precisazione, attualmente cabotegravir è in fase di approvazione da parte di AIFA e quindi ancora non disponibile in Italia per la PrEP. L’altro anello essenziale della catena è l’aderenza terapeutica alle terapie antiretrovirali.
Migliorare l’aderenza terapeutica
I nuovi farmaci long acting sono certamente efficaci nell’aumentare l’aderenza terapeutica nei pazienti con patologia, fattore essenziale per tenere sotto i livelli minimi il virus ed eliminare l’infettività dei pazienti.
Tuttavia, i long acting possono essere usati solo in pazienti già soppressi da un punto di vista virologico. E per i nuovi? Crescono le evidenze di efficacia della terapia duplice con dolutegravir/lamivudina, anche nei pazienti naive diagnosticati già in fase di AIDS.
Lo conferma la prof.ssa Mussini: “sono stati presentati i risultati dello studio DOLCE che confermano l’efficacia della terapia a due farmaci anche nei soggetti con diagnosi tardiva, addirittura nel 30% dei casi già in AIDS”.
La specialista ha infine sottolineato quali sono le nuove sfide per chi opera con pazienti con HIV, ovvero: migliorare la qualità di vita dei pazienti, per esempio somministrando farmaci con pochi effetti collaterali; gestire l’invecchiamento, che è spesso un po’ più precoce rispetto ai soggetti senza virus, perché l’infezione virale scatena processi infiammatori che favoriscono la senescenza cellulare; gestire le comorbidità, per lo più croniche, dovute in parte all’invecchiamento; ottimizzare le terapie antiretrovirali con le terapie in atto per le comorbidità.